7 agosto 2020

Il mamozio c'è, ed è dentro di noi.

È difficile per chi vede il mondo con gli occhi di un architetto, sopportare la totale assenza di una pubblica presa di coscienza di quanto sia importante parlare di come trasformare la città. I più intraprendenti al massimo alzano barricate quando una speculazione edilizia si mette in moto, i più pensano che le città si trasformino da sole.

Ho sempre pensato che l'incompiuta di piazza Duomo, rappresenti tettonicamente la perdita di ogni speranza di una cittadinanza che si è persa nei suoi egocentrismi e che si fa attiva solo su battaglie contro o su piccoli temi (ultimamente assisto a dibattiti a mezzo stampa sul dove parcheggiare in centro storico).
Intendiamoci, va bene tutto, meglio di niente, ma resta la sensazione spiacevole di una città che non vuole scommettere sul futuro. Certamente anche perché la fuga dei giovani ci priva di un elemento indispensabile: l'entusiasmo.

Ho letto sul Il Mattino del 5 agosto 2020 un interessante articolo a firma di Nico De Vincentiis, che mi ha ricordato quanto l'entusiasmo possa essere potente. Si parla di una tesi di laurea in architettura della 25enne Marcella Procaccini che proprio partendo dall'architettura incompiuta di piazza Duomo, elabora una strategia per innescare un processo di autentica trasformazione dell'edificio ed insieme della città intesa come comunità. Immediatamente mi sono ricordato che nell'ormai lontano 2017 lo studio [archiattack] si fece promotore di una iniziativa pubblica proprio all'interno del cantiere del museo di piazza Duomo, volta a riabilitare un edificio ingiustamente e un po' rozzamente additato come mamozio.
Di quella bellissima iniziativa ricordo due cose: l'emozione di poter immaginare una rinascita di quell'architettura offesa, e la cinica presa di posizione del sindaco Mastella, presente all'iniziativa, che prese a parlare di vecchi, di badanti, di buche delle strade, dei soldi che non ci sono e del fatto che lui lì avrebbe fatto una bella piazza. Così, una bella piazza, ipotesi che suscita immediata simpatia in chi non riesce ad immaginare niente di meglio e che oggi, messa a confronto con l'entusiamo di una 25enne mi suona un po' patetica.

Ma quello che questa tesi mi/ci ricorda, come un boato che interrompe un lungo sonno, è che non ci può essere nessuna rinascita nè per l'edificio, nè per la città senza la partecipazione, non possiamo pensare di non interessarci mai più di ciò che non tocca direttamente il nostro piccolo orto, ma che è indispensabile adottare un sogno collettivo, condiviso, costruito con pazienza e continuità.

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