| PINA di Wim Wenders | |
PINA di Wim Wenders è un film che parte da lontano, e che condensa in sé le esperienze e le vicende del regista, della coreografa ed anche dei luoghi in cui sono ambientate le scene del film che sono state girate in luoghi reali.
Wim e Pina si conoscono la prima volta nel 1985 a Venezia. Wenders non aveva mai seguito il balletto, lo trovava estraneo ai suoi interessi, ma a Venezia c'era una retrospettiva sulla coreografa tedesca e fu solo per l'insistenza della compagna di Wenders che egli si trovò ad assistere ad uno spettacolo della Bausch. Egli accettò, disse, per educazione di vedere Cafè Muller, spettacolo nel quale danzatori bendati si muovono in una scenografia realizzata con decine di sedie nere. Wenders racconterà anni dopo di essersi ritrovato, alla fine dello spettacolo, inchiodato alla poltroncina di velluto rosso del Teatro La Fenice con gli occhi gonfi di commozione. Fu così che volle conosce Pina e in quel loro primo incontro lui la inondò di parole e si lasciò scappare l'idea di fare un film insieme. Un film che sarebbe arrivato quasi vent'anni dopo.
I loro destini si erano già incrociati a Wuppertal nel 1973, quando Pina Bausch cominciò a dirigere il Wuppertal Ballet, trasformandolo presto nel Tanztheater Wuppertal, dove i gesti delle coreografie nascevano dal contributo personale dei ballerini, che venivano interrogati sul loro vissuto e chiamati a scrivere una lingua nuova: con il corpo, con l'abito "civile" anziché il costume di scena, con la nudità, con la parola. L'allora giovane regista invece a Wuppertal girò molte scene di Alice in der stadten (Alice nelle città), in cui il tema della città viene visto come occasione di un viaggio altro, dove non solo si guarda e si commenta ciò che scorre davanti agli occhi ma si partecipa in qualche caso alle realtà più vive che si incontrano, mantenendo sempre uno sguardo attivo, pronto a commuoversi, lasciandosi rapire da certe realtà sociali ed esistenziali più problematiche, coinvolgenti, di grande impatto emotivo.
Nessuno dei due era alla prima esperienza, ma in pratica il momento di svolta delle loro carriere giunse nello stesso periodo e nello stesso luogo, e tanti erano i punti di contatto: una forte messa in discussione della cultura precedente, ricerca artistica di reinvenzione necessaria e di assoluta libertà creativa, l'ispirazione neorealista ma profondamente psicologica. E poi, ancora, il viaggio goethiano alla scoperta dei luoghi del mondo e la fortissima connotazione pittorica.
La scelta di Wenders di girare a Wuppertal nel 1973 è da legare ai suoi ricordi d'infanzia, quando dalla non lontana Dussendolf andava a vedere il “tram volante”, il treno sospeso vecchio quasi come la storia del cinema (venne costruito nel 1901). Tornare a girare negli stessi luoghi a distanza di quasi quarant'anni ha certamente a che fare con la memoria e con l'idea che i luoghi delle città assumono un ruolo da protagonista nella vita come nel cinema. L'architettura, le città e i luoghi a suo parere dialogano con noi ininterrottamente.
“Pensiamo di essere gli unici a parlare, ma io sono convinto che ci sia uno scambio: i luoghi ci danno energia, sensazioni, ricordi, creano situazioni in cui possiamo lavorare, rilassarci, sentirci bene o male. E per come la vedo io, questa è una forma di dialogo. Le città influenzano le nostre azioni e i nostri pensieri, i nostri atteggiamenti e, persino, il nostro comportamento sociale: ci influenzano più di quanto, probabilmente, siamo disposti ad ammettere.”
Wim Wenders
Wenders è convinto che il cinema abbia un compito importante: aiutarci a decifrare e ad andare più d'accordo con la città. Troppo spesso le città sono raccontate come luoghi ostili, come elementi che ci rendono la vita difficile, quasi come se la felicità fosse raggiungibile solo in ambienti naturali. Il suo punto di vista è diverso: gli spazi creati dall'uomo ci liberano, ci offrono continuamente nuove occasioni, più di quanto non impediscano a queste occasioni di presentarsi. E soprattutto non sono separate dalle emozioni della vita.
In PINA è fortemente presente il connubio tra le emozioni delle persone e gli spazi reali.
Pina Bausch ha liberato la danza dal concetto di “arte per l'arte”, ancorandola alla vita. L'ha “de-idealizzata” restituendola al dominio dell'umano: c'è in essa una connotazione di necessità, come nel cinema e come in certe architetture contemporanee. La grande innovazione sta nel suo modo di confrontarsi con questo tipo di territorio espressivo. Una delle sue frasi più note è: ”Non mi interessa come i miei danzatori si muovono, ma che cosa li fa muovere” ed è per questo che Pina per preparare i suoi spettacoli faceva innumerevoli domande ai suoi danzatori, talvolta molto personali.
La regola era la seguente: i danzatori dovevano rispondere non (solo) con le parole, ma anche con gesti, movimenti e danza. Inoltre a partire dalla metà degli anni ottanta la Bausch aveva dedicato un gruppo di spettacoli alle città. Un vero e proprio viaggio nei luoghi per assorbirne elementi di ispirazione per poi portare i danzatori ad esibirsi proprio nelle città ispiratrici. Oltre ad un essere uno spostamento concreto, ogni volta quello di Pina Bausch è anche un viaggio interiore, che fa del posto prescelto lo spunto per un ulteriore approfondimento di quel particolare universo espressivo che è il Tanztheater.
Le forme architettoniche producono una nuova spazio-visualità, l'essenza dei luoghi modifica il rapporto tra percezione spaziale e movimento corporeo.
Alla luce di quanto detto appare molto significativo il ruolo degli spazi scelti per le ambientazioni del film. Il regista aveva girato parecchie scene di Palermo Shooting (2008) nella scuola di design di Essen, in cui il protagonista del film, il fotografo Finn, vive e ha il suo (falso) studio. Lo stesso edificio, edificato nel parco della Zeche Zollverein, compare anche in PINA, una scelta non certamente casuale, perché anche questo luogo ha una storia interessante da raccontare.
Fino agli anni ottanta le miniere della Zollverein erano il simbolo della potenza del sistema industriale tedesco: il crogiuolo nel quale il lavoro degli operai alimentava lo sforzo tecnologico della civiltà dell'acciaio. In un'area di poco più di 100 ettari, perennemente avvolta dagli acri fumi delle ciminiere, si concentravano impianti d'estrazione, vasche di lavaggio e macchine per la trasformazione del fossile: edifici massicci e cupi, indifferenti ad ogni estetica che non fosse quella della funzione, ma anche il simbolo della capacità dell'uomo di trasformare l'ambiente, in un rapporto di mutua simbiosi, di sfruttamento e di adattamento. Per la straordinaria influenza che ha avuto sulla società tedesca la Zollverein non poteva essere semplicemente abbandonata e demolita: già dichiarata monumento nazionale nel 1986, l'immenso stabilimento è stato dichiarato patrimonio UNESCO nel 2001 ed è stato riconvertito da area industriale ad istituzione culturale con un masterplan degli olandesi OMA, con progetti di Norman Foster (design Zentrum), Rem Koolhaas (Ruhr Museum in collaborazione con i tedeschi Heinrich Boll e Hans Krabel) e Sanaa (Zollverein School of Management and Design).
L'idea era che gli edifici dovessero riconquistarsi il diritto alla vita riconvertendosi da fabbriche di cose in fabbriche di saperi e cultura: l'irruzione in questi spazi dei danzatori della Bausch esalta proprio questo concetto.
Le architetture sembrano nascere dalla stessa tensione che fa nascere le coreografie della Bausch: partono dalle domande, seguono l'evoluzione delle cose, gli intrecci, i collegamenti, disegnano i nessi, tracciano direzioni. Siamo in presenza di un linguaggio che nasce da un lavoro minuzioso sulla memoria, contrario alla logica “istituzionale” che apre il campo a reazioni vive e autentiche. Attraverso la negazione delle “belle apparenze” ci approda ad un'altra bellezza, quella che più genuinamente appartiene al luogo in cui sorge. Si sente nella costruzione degli spazi un bisogno di scoperta e rinnovamento.
“Il modo in cui lavoro mi trasmette energia: vorrei che alle persone potesse succedere lo stesso, che arrivino ad avere la possibilità di trarre dall'architettura una carica di energia, anche se non è in grado di coglierne il senso”. SejimaNello stesso periodo in cui lavorava alla scrittura di PINA, Sejima di SANAA chiese a Wenders di realizzare un'installazione che avrebbe voluto portare alla Biennale di Architettura di Venezia del 2010. A Wenders fu proposto di raccontare il “Rolex Learning Center”: un edificio grande su un unico piano, un fatto quasi unico, un edificio che sorge dal terreno e si sviluppa con 'valli' e 'colline'. Trascorsi due giorni con l'architetto a Losanna, dove sorge il centro, il regista accettò e si disse che sì, che voleva veramente fare quel film, o quell'installazione.
Data la particolarità dell'edificio Wenders decise di utilizzare la tecnica 3D, e proprio allora si rese conto di aver trovato la chiave giusta per raccontare con le immagini il lavoro della Bausch, perché poteva inserire nel racconto un elemento indispensabile: lo spazio. Lo spazio che esiste solo in rapporto al movimento, in una architettura che rinuncia ad una pura ricerca formale, ma che esplora nuove possibilità ignote all'inizio del processo compositivo.
Tutti i protagonisti del film, danzatori, architetti, regista, hanno cominciato il loro percorso col farsi domande, esattamente come aveva intuito Pina.
| PINA di Wim Wenders | 2011 | |
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